Minori in un centro di accoglienza – Foto di archivio – Kontrolab

Mercoledì 16 giugno 2021 Avvenire ha pubblicato un articolo di Fulvio Fulvi (che qui riportiamo) sulla questione riguardante il riconoscimento della cittadinanza italiana e, segnatamente, ai minori di origine straniera residente nel nostro Paese. Non si tratta di una “questione ideologica” bensì – come viene definita dal rapporto citato nell’articolo – di “una sfida dell’inclusione” in quanto l’integrazione è un vantaggio per tutti, non solo per i bambini e le famiglie straniere, poiché una società più inclusiva significa meno conflitti sociali e culturali e un miglioramento del clima di convivenza nel Paese.

 

Sono più di un milione i minori di origine straniera residenti nel nostro Paese. Un numero in crescita (+15,6% tra il 2012 e il 2018), a fronte di un forte calo generalizzato della natalità. Si tratta di bambini e ragazzi – l’11% dei minorenni che vivono in Italia – che, nella stragrande maggioranza, frequentano la stessa scuola dei loro coetanei italiani, parlano la medesima lingua, giocano insieme, hanno uguali speranze, paure e fragilità legate all’età. Ma, in base alla legge, non possono essere cittadini italiani.

Molti di loro sono arrivati in Italia solo dopo la nascita, altri, quelli di “seconda generazione” sono nati sul suolo italiano da genitori stranieri. E poi ci sono i minori non accompagnati, bisognosi di una specifica assistenza. Tra le Regioni, la presenza di stranieri che hanno un’età compresa tra gli 0 e i 17 anni è diffusa soprattutto nel centro-nord e nelle città piuttosto che nei piccoli paesi: superano il 16% dei residenti in Emilia-Romagna e Lombardia, toccano il 14,5% in Toscana e il 13,7% in Piemonte, Veneto e Liguria. La provincia con la più alta concentrazione di bambini e adolescenti è Prato, con il 28,8%.

Se si tiene conto inoltre che il 31,2% delle famiglie di stranieri con figli minorenni si trovano in povertà assoluta (la media nazionale, su dati 2019, è del 9,7%) ecco un’altra emergenza educativa a cui si deve far fronte. “Una sfida dell’inclusione”, la definisce in un’anticipazione di Avvenire il rapporto curato da “Con i bambini-impresa sociale” e Fondazione Openpolis nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. «L’integrazione è un vantaggio per tutti, non solo per i bambini e le famiglie straniere – è scritto nella ricerca – perché una società più inclusiva significa meno conflitti sociali e culturali e un miglioramento del clima di convivenza nel Paese».

Fallire la sfida, si precisa nel documento, può comportare allora gravi conseguenze: meno opportunità per chi è rimasto fuori dai percorsi educativi, redditi più bassi, maggiori diseguaglianze e, non ultimo, il rischio di segregazioni e marginalità. Nuovi ghetti, insomma. La scuola, l’istruzione di qualità, diventano quindi essenziali. E se è vero che al crescere del titolo di studio aumentano le possibilità di occupazione, due dati del Report fanno riflettere: il 36,5% dei giovani tra i 18 e i 24 anni senza cittadinanza italiana ha lasciato la scuola prima del tempo contro una media del 13,5% e solo il 24,4% degli alunni delle superiori con cittadinanza extra-Ue frequenta il liceo, a fronte del 48,8% degli italiani.

Inoltre, l’abbandono scolastico, secondo lo studio elaborato da Openpolis-Con i bambini, fenomeno che in Italia tra il 2004 e il 20219 ha segnato un calo generale del 9,6%, «è il sintomo più evidente di un processo di inclusione che rischia di lasciare fuori ancora troppi ragazzi».

E tra i giovani stranieri il tasso di interruzione degli studi rimane 3 volte superiore rispetto a quello degli italiani: è un aspetto, questo, che incide sulla possibilità di integrazione perché la scuola è il luogo naturale non solo per apprendere la lingua ma anche per sviluppare una rete di socialità e di amicizie, necessità ancora più sentita per chi viene da Paesi lontani e ha contatti solo con la famiglia e la proprio comunità di origine, quando c’è.

Ma esistono anche difficoltà di apprendimento, spesso legate proprio al mancato inserimento in una classe o in un contesto scolastico. Per gli stranieri, infatti, può essere più difficile e faticoso seguire le lezioni in una lingua che non conoscono bene o perché si sentono “estranei” e lontani dagli argomenti trattati. E così, se il ritardo scolastico riguarda mediamente un alunno con cittadinanza italiana su 10 (cioè il 9,6%), per gli studenti di origine straniera il dato medio è, anche in questo caso, 3 volte superiore, ovvero il 30,70%. E può succedere che il maggior ritardo accumulato dagli studenti con cittadinanza non italiana si accompagni ad apprendimenti inferiori rispetto ai coetanei, fattore che può presentarsi lungo tutto il percorso di studi. «Con forti differenze tra gli alunni di prima e di seconda generazione» sottolinea il Report, i cui numeri mettono in evidenza che oltre la metà degli stranieri iscritti alle scuole superiori, ha almeno un anno di ritardo nel proprio percorso di studi.

Ma c’è anche l’“altra faccia della medaglia”: è da rilevare infatti che nell’apprendimento della lingua inglese gli studenti stranieri (di prima e seconda generazione) tendono ad avere punteggi in media più alti rispetto ai coetanei italiani: 204,50 contro 199,50. Un dato, questo, che suggerisce come i vantaggi di una maggiore integrazione scolastica tra ragazzi provenienti da culture diverse potrebbero avere effetti positivi per tutti. Società, famiglie, scuola.

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