di Alberto Gaino
Racconto della quarantena in una casa occupata di Roma
Nel “lungo percorso dei diritti” dei migranti la pandemia da Covid-19 ha creato ulteriori forti diseguaglianze. Come ci hanno raccontato, nel corso del Festival dell’Accoglienza, numerosi testimoni. Ahmad Al Rousan, responsabile dei mediatori di Medici Senza Frontiere, è venuto a Torino da Roma a riferirci la funzione della sua preziosa attività per mettere in comunicazione mondi diversi, nel primo periodo della pandemia: da un lato quello dello Stato con le prefetture, i militari schierati per far osservare le quarantene, i controlli sanitari affidati alle Asl, dall’altro il popolo delle case occupate nella sterminata periferia romana, dove il virus, a causa del sovraffollamento e delle condizioni igieniche precarie, si è insinuato più rapidamente.
Ahmad racconta: “Sono stato chiamato per due mesi a marzo 2020 a dare una mano alla gestione della situazione in un caseggiato occupato, in zona Anagnina, dalle parti della Tuscolana. Vi vivevano allora 70/80 famiglie, dai 3 ai 4 componenti ciascuno, come minimo, per lo più eritrei e somali, ma anche di altra provenienza, alcuni nuclei erano italiani. Uno dei primi casi romani di covid si era registrato proprio là e fu subito fatto scattare un cordone sanitario. Corrispose all’isolamento totale, dal resto del mondo, di quelle centinaia di persone da un giorno all’altro, fatto rispettare dalla presenza della polizia che bloccava l’uscita dal caseggiato.”
“Quella realtà era già un ghetto prima. Figuratevi cosa diventò in quei mesi in cui chi aveva un lavoro, per lo più precario, lo perse, i bambini non potevano andare a scuola, le persone dovevano aspettare che arrivasse un po’ di spesa da fuori per mangiare, la convivenza h24 in locali precari e sovraffollati era diventata un ulteriore disagio. In particolare, si soffriva di totale mancanza di risorse e di libertà ridotta a zero: si diffondeva, fra la gente della casa occupata, ma anche delle altre case occupate in analoghe condizioni, la convinzione che la pandemia fosse una scusa per realizzare una politica di esclusione ermetica dei migranti irregolari. Ci fu persino chi paragonava il Covid ad un atto di stregoneria e mal sopportava gli obblighi imposti per arginare la pandemia: la quarantena, le altre restrizioni, i tamponi, i vaccini. Va detto anche questo per capire certi contesti.”
Il ghetto delle trans brasiliane nella periferia torinese
La testimonianza di Marcia Hadad, mediatrice interculturale di Almaterra, è di quelle che ti portano diritto in una realtà che si pensa di conoscere grazie ad un immaginario collettivo condizionato dagli stereotipi, ma che ci trattiene molto al di qua della vita reale di persone “praticamente tutte vittime di tratta”. Che significa “subire violenza quotidiana fisica e psicologica tutti i giorni.” Pure Marcia aveva inizialmente un pregiudizio: “Essendo anch’io brasiliana, quando fui chiamata ad occuparmi delle donne transessuali, pensai alla fama che nel nostro paese hanno di esercitare una certa robustezza di modi. Mi sbagliavo.”
L’aspetto più orrendo della loro condizione di vita è che debbano vivere tutte insieme in un ghetto diventato marchio di emarginazione rispetto al territorio che le circonda e per cui “sono costrette a pagare affitti esorbitanti dall’organizzazione che fa capo ad unico padrone di casa”. Non sappiamo chi sia costui ma è più di un riflesso condizionato pensare al solito impresario, proprietario di oltre 2 mila locali a Torino che sembra essersi ispirato ad un personaggio dickensiano.
Chi tira le file della tratta che le sfrutta sessualmente fa il resto nell’abbandonarle in una condizione di povertà economica assoluta, oltre che culturale. Marcia: “Il mio primo approccio è stato portare loro del cibo: avevano fame. Durante il lockdown, in particolare, non avevano modo di lavorare e dovevano stare serrate nel loro ghetto: una situazione che ne evidenziava gli stati d’animo caratterizzati dai sintomi di psicosi post-traumatica da stress, sempre in fibrillazione per l’ansia, sempre pronte a scattare per difendersi. Hanno sempre pagato per tutto, e a caro prezzo. Fra loro vi è chi è affetta da HIV e adesso è seguita all’Amedeo di Savoia. All’inizio del mio intervento ho trovato un gruppo di donne che non sapeva di potersi rivolgere ad un medico anche se irregolarmente presenti in Italia. Partendo dal bisogno primario del cibo, ho dovuto imparare a confrontarmi con le loro paure di ogni genere e per fortuna c’è stato un passaparola: sono delle sopravvissute.”
Il mediatore di strada per frantumare i muri più invisibili
Lamine Sidi Mamane è animatore interculturale di Mosaico Azioni per i rifugiati e si è formato “sul campo” lavorando fra le centinaia di migranti che occupavano le case dell’ex MOI, il villaggio olimpico di Torino 2006. Racconta: “E’ stata un’esperienza importante che mi ha insegnato quanto sia fondamentale saper ascoltare. Serve ad abbattere i muri fra le persone. Tu sei là e può capitare che un migrante ti racconti la sua storia solo perché, condividendola, si convince che ha un valore se le si concede il proprio tempo per ascoltarla. Così può nascere una certa fiducia. Ascoltare le persone, che vengono dai posti più lontani e culture diversissime che ne condizionano i modi di pensare, può servire a capirne anche i pregiudizi. E’ stato il mio background quando ho lavorato allo sportello dell’Asl di corso Corsica dove si rivolgevano gli occupanti dell’ex MOI. E dove era facile, per differenze culturali, che prevalessero i pregiudizi nella comunicazione fra operatori e utenti stranieri.”
“Adesso faccio il mediatore di strada. Nel centro storico di Torino si aggirano persone senza fissa dimora che hanno problemi di salute e la nostra attività è di cercare di mandarle ai servizi territoriali, come l’ambulatorio della Camminare insieme. Non è cosa semplice: con un anziano ho impiegato un anno per costruire un rapporto in cui ci fosse comunicazione reciproca di richieste e risposte. Poi, è chiaro che le persone in difficoltà le vado a cercare: i giovani borderline, per esempio, so che vivono lungo la Dora e vado a cercarli da quelle parti. Non è che basti parlare, né con loro né con quasi nessun altro, per stabilire un contatto. So di essere una prima linea parte di una rete più grande: la mia funzione è di indicare alle persone dove possono trovare risorse per mangiare, dormire, farsi visitare da un medico. Sembra scontato che certe informazioni circolino più o meno spontaneamente, ma non è sempre così.”