È nata una rubrica su Melting Pot tutta dedicata alle parole. Parole che creano significati, li riproducono e, allo stesso tempo, sono il punto di partenza per comprendere il nostro mondo. L’articolo di Laura Morreale esplora il significato della parola “accoglienza”    applicata frequentemente quando ci riferiamo ai migranti non solo nel linguaggio comune ma anche nel linguaggio delle istituzioni.    

La parola accoglienza evoca un immaginario positivo e rassicurante: accogliere un ospite, un nuovo arrivato, ma anche un’idea o una proposta.
Da parte di chi accoglie, può significare aprirsi a una novità, riconoscere la legittimità dell’altro, far sentire a proprio agio una persona in un contesto che non le è familiare.
Dal lato di chi viene accolto, vuol dire sentirsi benvenuto e legittimato in uno spazio, partecipe di un tessuto sociale. Date queste premesse, riflettiamo sulla ricorrenza così frequente di questa parola, quando si parla di migrazioni.
È giusto utilizzarla per indicare un sistema di gestione e controllo della libertà di movimento e della mobilità sociale?

Se ci riferiamo all’insieme di misure volte a regolare l’ingresso, la presenza e la posizione socio-economica delle persone migranti come al “sistema dell’accoglienza”, stiamo implicitamente attribuendo un valore positivo a queste prassi.
Tutto il percorso dell’accoglienza, dalle procedure di identificazione e smistamento, all’iter per il riconoscimento di uno status legale, ai progetti di inserimento sul territorio, è veramente riconducibile alla volontà di accogliere, o segue invece logiche selettive, esclusive e di controllo?
Ovviamente, l’utilizzo di un determinato linguaggio da parte delle istituzioni è funzionale a normalizzare complessivamente le politiche di regolamentazione delle migrazioni. Il “sistema dell’accoglienza” viene così proposto come la soluzione più etica che lo Stato possa adottare, oltre che la migliore delle prospettive per le persone migranti. Consideriamo ad esempio la presentazione che il sito del Ministero dell’Interno fa delle procedure con cui lo Stato regola gli ingressi indesiderati sul proprio territorio: “I cittadini stranieri entrati in modo irregolare in Italia sono ospitati in centri dove, se richiedono la protezione internazionale, vengono accolti per il tempo necessario per le procedure di accertamento dei relativi requisiti, diversamente, vengono trattenuti in vista dell’espulsione.” [1]

Perché una descrizione del genere è problematica? Riflettiamo sul ricorso a termini come ospitati e accolti, alla loro pervasività quando si parla di migrazioni. Questo lessico rimanda, da un lato, a un’idea di caritatevole (e arbitraria) benevolenza da parte dello Stato e, dall’altro, di accettazione della propria condizione – una condizione peraltro conveniente – da parte di chi viene ospitato e accolto.

Questa lettura induce implicitamente a due conseguenze: la prima è che l’azione dello Stato è finalizzata a migliorare la posizione di persone il cui svantaggio viene presentato come oggettivo e preesistente. In questo modo si deresponsabilizzano scelte di politiche migratorie improntate sul securitarismo, sull’immobilità come condizione naturale e sulle logiche emergenziali, che producono lo status di illegalità di migliaia di persone. Proprio perché “illegalizzate”, queste persone si trovano in una condizione di svantaggio: la mancanza di canali legali per spostarsi è alla base di tale condizione.

La seconda conseguenza sottintesa nel concetto di accoglienza è che rifiutarla o contestarla è impensabile: non possono esistere prospettive migliori, per persone provenienti da una condizione oggettiva di bisogno. A coloro che arrivano è quindi negato implicitamente di avere aspirazioni e volontà individuali al di fuori del sistema che è stato costruito per loro, e dell’idea di migrante su cui questo si basa. Chi ha bisogno di essere accolto, salvato in qualche modo, non può di certo rifiutare la mano che gli viene tesa. Qui affonda le radici l’idea, diffusa sia a livello narrativo che pratico, per cui ci sono soggetti più meritevoli di essere accolti di altri: se non rispecchi l’immagine di vittima, di debole, non puoi avere un motivo valido di spostarti, e non puoi avanzare alcuna pretesa verso lo Stato.

Tornando alla definizione del Ministero, parlare di tempo necessario per le procedure di accertamento omette poi la complessa burocrazia, i tempi di attesa interminabili e l’arbitrarietà che segnano di una profonda incertezza le vite di tantissime persone. La condizione di precarietà è vista d’altronde come il male minore per chi è nella posizione dell’accolto, del ricevente. Tra l’altro, in diversi casi gruppi di persone entrate irregolarmente in Italia non sono stati informati della possibilità di richiedere una forma di protezione, ma sono stati direttamente rimpatriati in virtù di accordi con Paesi ritenuti “sicuri”. Tutto questo conferma la tendenza a non considerare vissuti, esigenze e aspettative individuali come fattori rilevanti nel trattamento delle persone migranti.

Anche l’accenno al trattenimento in vista dell’espulsione rimanda alla logica selettiva della narrazione basata sull’equazione migrante=vittima da salvare, in cui chi non corrisponde a tale paradigma non merita di accedere al territorio. Peraltro, questa descrizione dei meccanismi di espulsione esclude una componente fondamentale delle dinamiche su cui si reggono: in molti casi, la reclusione nei CPR coinvolge individui già presenti in Italia, senza documenti o con permessi scaduti; si tratta spesso di soggetti “indesiderabili” (ad esempio senzatetto o persone con disabilità mentali), che invece di ricevere sostegno per le loro vulnerabilità subiscono il provvedimento di detenzione amministrativa.

Maturare una consapevolezza di ciò che è sottinteso nel nostro linguaggio quotidiano, e di quanto questo incida nell’accettazione di modelli sociali particolari, è fondamentale per un cambiamento reale. Soltanto da un approccio critico può partire un’alternativa al binarismo tra una xenofobia più o meno velata e un umanitarismo spesso deumanizzante, in cui oggi appare fossilizzato il discorso pubblico italiano sulle migrazioni.

 

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