Foto di Mamadou Traore da Pixabay

Pubblichiamo di seguito l’Intervista con Alberto Pasquero di Alberto Perduca, uscita sul numero 23 della rivista quindicinale Rocca della Pro Civitate Christiana di Assisi, in occasione del 2 novembre, data di rinnovo automatico del Memorandum Italia-Libia.

Alberto Pasquero è avvocato e dottore di ricerca in diritto internazionale. Dal 2006 al 2017 è stato nei Balcani, occupandosi prevalentemente di contrasto ai crimini di guerra e alla criminalità organizzata. Dopo aver lavorato per conto di UNHCR presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Trapani, dal 2019 è tornato alla professione forense, lavorando esclusivamente con cittadini stranieri, che difende in cause civili e penali. Dal 2020 è professore a contratto di diritto internazionale umanitario presso l’Università Statale di Milano.


Che cosa farà il nuovo governo di centrodestra sul tema dell’immigrazione? Dal memorandum con la Libia, all’atteggiamento verso le ONG impegnate nel salvataggio in Mediterraneo. Il tema non riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Europa.

L’accordo quadro di programma per un governo di centrodestra di Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati ha posto l’accento sul “contrasto all’immigrazione irregolare e gestione ordinata dei flussi legali di immigrazione”. Due sarebbero le direttrici principali lungo cui muoversi per perseguire l’obiettivo. Da un lato, la difesa dei confini nazionali ed europei come richiesto dall’Ue con il nuovo Patto per la migrazione e l’asilo, con controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi per fermare, in accordo con le autorità del nord Africa, la tratta degli esseri umani. E dall’altro, la creazione di hotspot nei territori extra-europei gestiti dall’Unione Europea, per valutare le richieste d’asilo. Nel suo intervento programmatico alla Camera del 25 ottobre 2022 il presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni ha poi confermato questa linea ribadendo che in Italia, come in qualsiasi altro Stato serio, non si entra illegalmente; si entra legalmente, attraverso i decreti flussi e che la sua compagine intende fermare le partenze illegali, spezzando finalmente il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. Di fronte a queste proposizioni resta da vedere se come ed in quale misura verranno realizzate. Ma la prima domanda è: siamo di fronte ad una svolta ovvero è prevedibile una certa continuità rispetto alle politiche di immigrazione dei precedenti governi di diverso orientamento?

A. P. È presto per dire se ci sarà una vera discontinuità, anche perché gli spazi per ridurre ulteriormente gli ingressi di stranieri in Italia sembrano davvero minimi. È già quasi impossibile ora. I canali di ingresso regolari per lavoro (i cosiddetti «flussi») vengono aperti raramente e i posti sono pochi e difficili da ottenere. È per questo che molti stranieri cercano di arrivare irregolarmente, ma partenze e sbarchi sono contrastati con forza attraverso intercettazioni nel Mediterraneo da parte della Guardia Costiera libica, che finanziamo generosamente. Ricordiamoci però che le intese con la Libia le ha fatte un Governo che si diceva di centro-sinistra, quando Presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni e Ministro dell’interno Marco Minniti. Nell’ultimo Governo gli è succeduta la Ministra Luciana Lamorgese, che ha rivisto solo in parte i decreti sicurezza voluti dal governo gialloverde nel 2018, lasciando in essere alcune disposizioni che ad esempio possono far divieto a Ong di entrare nei porti italiani e continuano a prevedere sanzioni a loro carico. Anche se sono state alleggerite, resta comunque la logica che la solidarietà in mare, anziché supportata, può e deve essere contrastata. Quanto alla «sanatoria» di lavoratori irregolari, voluta dalla ministra Teresa Bellanova nel 2020, a due anni di distanza la metà dei richiedenti è ancora in attesa di risposta. Insomma, non esattamente un governo pro-immigrazione. Dunque, più che una vera discontinuità nella sostanza, possiamo attenderci che cambieranno i toni e l’importanza che al discorso migratorio verrà dato nel dibattito pubblico: tutte le destre in Europa e oltre (pensiamo a Trump) hanno fatto della lotta alla migrazione un punto intorno al quale raccogliere consenso e in cui incanalare i malumori dei cittadini. Fu così che Matteo Salvini andò al governo e guadagnò consensi a dismisura. È prevedibile che sarà una linea simile alla sua a prevalere nell’attuale Governo. D’altra parte, a confermare il dato della continuità non può dimenticarsi che Matteo Piantedosi, ora Ministro dell’Interno, è stato Capo di Gabinetto – e cioè diretto e fiduciario collaboratore – di Matteo Salvini allorché costui sedette al Viminale dal giugno 2018 al settembre 2019.

In tema di difesa dei confini nazionali ed europei, nel corso della campagna elettorale si è parlato di «blocco navale», formula questa che peraltro non compare più nel programma della coalizione di centrodestra né nelle dichiarazioni programmatiche di Giorgia Meloni. Di che cosa si tratta? È davvero realizzabile? È conforme al diritto internazionale?

A. P. Giorgia Meloni ha parlato molto negli anni scorsi di «blocco navale con la Libia» da cui proviene una buona parte dei migranti che sbarcano in modo irregolare sul nostro territorio. La Libia però ha migliaia di chilometri di costa e non si capisce in che modo si possa «bloccare» il traffico navale che peraltro è anche composto in buona parte da traffico commerciale. Se parliamo invece di contrastare i barconi dei migranti, questo viene già fatto in modo sistematico attraverso finanziamenti e donazioni alla guardia costiera libica. Il governo Draghi ha recentemente donato loro altre 12 unità navali e abbiamo da anni una nave militare italiana, la «Caprera», ormeggiata stabilmente nel porto di Tripoli che coordina le comunicazioni con i Libici proprio per intercettare i migranti.

Nel programma della coalizione di centrodestra si fa riferimento alla «difesa dei confini nazionali ed europei come richiesto dall’Ue con il nuovo Patto per la migrazione e l’asilo». Quali sono le linee principali della politica Ue in materia?

A. P. Occorre ricordare anzitutto che gli ingressi per lavoro, studio, ecc. sono disciplinati dai singoli Stati e non dall’Unione europea, che si occupa principalmente dell’ingresso di persone che chiedono protezione perché sono in fuga da guerre, persecuzioni e altre violazioni dei diritti umani. Purtroppo però, nonostante i proclami a favore del diritto di asilo, la Ue si impegna da anni per fare in modo che le persone straniere non arrivino proprio a mettere piede sul suo territorio, in modo da non doversene occupare. È per questo che abbiamo dato ben 6 miliardi di euro alla Turchia di Erdogan e finanziamo progetti per rafforzare i controlli delle frontiere in Libia, Tunisia e molti altri paesi africani, come il Niger, con altri miliardi di euro. Si tratta della cosiddetta «esternalizzazione» delle frontiere, un tema centrale nel discorso migratorio contemporaneo, ben documentato da un sito messo online nei giorni scorsi, TheBigWall. Guardando al futuro, la Ue da anni sta cercando di approvare un pacchetto di riforme in senso ancora più restrittivo, cercando di espellere il prima possibile anche i pochi cittadini stranieri che riescono ad entrare in modo irregolare sul territorio europeo per chiedere protezione. La Ue (che poi sono i governi dei Paesi che la compongono) vuole un modello per cui chi entra viene sistematicamente trattenuto in frontiera e se la sua domanda non viene accolta viene immediatamente rimpatriato. Con buona pace della valutazione individuale e approfondita dei motivi, spesso tragici, che spingono le persone a lasciare casa, famiglia e affetti, rischiare la vita e cercare di arrivare in un posto sicuro.

D. È in scadenza, con possibilità di tacito rinnovo, l’Accordo stipulato con la Libia. Al di là delle intenzioni, dopo 5 anni di applicazione è ormai tempo di bilancio in punto efficacia, costo umano e spesa economica. È del 26 ottobre 2022 l’appello di oltre 40 organizzazioni con cui si chiede all’Italia e all’Europa di riconoscere le proprie responsabilità e di non rinnovare l’accordo con la Libia, Paese che non è né sicuro – perché in preda a conflitti armati – né in grado di garantire il rispetto dei diritti umani. Lei ha contribuito al volume collettaneo L’attualità del male. La Libia dei Lager è verità processuale (2018). Cosa pensa dei rapporti tra Italia e Libia per il contrasto all’immigrazione?

A. P. Il 2 novembre scade il termine per il rinnovo del Memorandum con la Libia: se non interviene la disdetta, a febbraio 2023 l’Accordo sarà prorogato tacitamente per altri tre anni. Non c’è dubbio che l’Accordo sia stato molto efficace dal punto di vista della repressione dell’immigrazione irregolare: come si legge nell’appello sopra ricordato «dal 2017 ad oggi quasi 100.000 persone sono state intercettate in mare dalla Guardia costiera libica e riportate forzatamente in Libia…». Ma ciò è avvenuto facendo pagare un prezzo tragico ed inaccettabile, di sofferenze e di perdita di vite umane. È notorio – perché denunciato a più riprese da tutti gli osservatori internazionali, da Medici senza Frontiere all’Onu – che i migranti quando sono intercettati dalle autorità libiche – prima o dopo di tentare l’attraversamento del Mediterraneo – vengono rinchiusi in centri di detenzione dove si praticano estorsioni, torture, stupri ed anche uccisioni. Contro il rinnovo del Memorandum con la Libia c’è stata una campagna lanciata da una coalizione di Ong con l’hashtag #iononsonodaccordo, e ci sono state manifestazioni di piazza. Purtroppo, il risalto che al dissenso si dà sui media è minimo. Anche perché il consenso politico sul Memorandum è trasversale a tutti partiti, dal Pd di Paolo Gentiloni e Marco Minniti che lo stipulò, passando per Giuseppe Conte e Mario Draghi, nessuno si è mai sognato di revocare il Memorandum e non sarà certo questo Governo a farlo.

Quanto agli scomparsi nel Mediterraneo mentre tentano di raggiungere le coste dell’Europa, il messaggio che spesso viene fatto passare è che, limitando le partenze, si contengano le morti. Questo rapporto di causa ed effetto trova riscontro nei dati conosciuti?

A. P. Direi proprio di no. Tutti i governi degli ultimi anni, così come la Ue, cercano di giustificare la lotta all’immigrazione clandestina come lotta al «traffico di esseri umani». La tratta di persone esiste, ma quello che interessa ai governi non è proteggere le vittime di tratta, quanto contrastare i passeur che facilitano l’immigrazione irregolare. È una battaglia che io non condivido, e che comunque non si può vincere, perché chi vuole o deve fuggire dal proprio Paese ci sarà sempre. Stringere le maglie significa obbligare queste persone a scegliere percorsi migratori più difficili, costosi e pericolosi. Quanto poi alle statistiche, stando all’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), nonostante la diminuzione negli ultimi tre anni del numero di attraversamenti, quello delle vittime è in forte aumento. Nel 2021 sono stati registrati circa 3.231 morti o dispersi in mare – nel Mediterraneo e nell’Atlantico nordoccidentale. Nel 2020 erano stati 1.881, nel 2019 1.510 e 2.277 nel 2018.

Al suo lungo servizio in ambito internazionale è seguito anche un periodo di lavoro prestato in Sicilia come funzionario della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Trapani. Quali sono le lezioni da trarre da queste esperienze?

A. P. Che quando si parla di persone non si può mai generalizzare; l’Italia, ad esempio, presume che persone che vengono da alcuni Paesi, penso soprattutto ai cittadini tunisini, possano essere sistematicamente rimpatriati perché nel loro paese non corrono pericoli e sono al più da considerare migranti economici. Invece dietro ogni persona c’è una storia personale che deve essere valutata senza pregiudizi, e infatti anche a Trapani non mancarono i tunisini a cui venne riconosciuto lo status di rifugiato. Ne ricordo uno che era al suo secondo sbarco in Italia: la prima volta era stato immediatamente preso, trattenuto per giorni su un autobus e poi rimpatriato. Dovette pagarsi un nuovo viaggio e rischiare nuovamente la vita per poter ottenere asilo.

Quali sono le prospettive ed i problemi legati alla perseguita creazione di hot-spot nei territori extra-europei, gestiti dall’Unione Europea, per valutare le richieste d’asilo? Gli accordi presi tra Regno Unito e Ruanda per trasferire in quel Paese i migranti costituisce l’esperienza ‘avanzata’ di questa linea? Quindi del rispetto del diritto internazionale?

A. P. Questa è una vecchia idea, che già alcuni Paesi europei praticano, cioè di preselezionare chi ha requisiti per beneficiare della protezione internazionale quando è ancora all’estero. Il motivo è sempre lo stesso, evitare che arrivino in Europa e poi in qualche modo rimangano. L’approccio hotspot è già una cifra delle politiche Ue da tempo, sulle isole greche e in Italia (pensiamo a Lampedusa, per cui l’Italia è già stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, senza che sia poi cambiato nulla). Il Regno Unito è andato un passo oltre l’approccio hotspot, seguendo l’esempio di un accordo che aveva già fatto la Danimarca qualche anno fa, sempre con il Ruanda. Si tratta in questo caso non di una prevenzione degli arrivi, di una vera e propria deportazione di chi già si trova qui, ovviamente non solo ruandesi ma cittadini di qualsiasi Paese. Questo è inaccettabile perché pensare che si possano trattare le persone come se fossero pacchi che possono essere spediti in giro per il mondo è degradante e viola una serie di diritti umani fondamentali.


Ringraziamo la Redazione della rivista Rocca per la concessione alla pubblicazione accordataci.

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