Uno dei più diffusi argomenti contro il salvataggio e l’accoglienza delle persone in cerca di asilo riguarda i costi necessari a questa risposta umanitaria: 4,8 miliardi di euro nel 2018, anno di picco della spesa relativa. Il sottinteso di un simile ragionamento è che i respingimenti siano gratuiti, o quasi. Un salutare risparmio di risorse pubbliche. Di recente però un documentato rapporto di ActionAid, “The Big Wall” (“Il grande Muro”), ha cominciato a squarciare il velo sui vari capitoli di spesa, italiani ed europei, che finanziano il fronte della sorveglianza dei confini e della deterrenza verso i tentativi di ingresso, fossero pure quelli di chi fugge da guerre e persecuzioni etniche, politiche e religiose.

Si tratta di cifre largamente incomplete, perché le spese sono spesso occultate sotto l’ombrello di voci di bilancio più ampie, oppure diluite nei finanziamenti delle forze dell’ordine, dei Ministeri o di altri apparati. Anche se parziale, il dato fa comunque impressione: tra il 2015 e il 2020 l’Italia e l’Unione Europea hanno speso un miliardo e 337 milioni di euro per cercare di fermare gli arrivi dall’Africa. Il controllo delle frontiere assorbe quasi la metà del budget. Spese ingenti riguardano il dispiegamento di tecnologie sempre più sofisticate. Per esempio, a febbraio la Polizia di frontiera ha assegnato un appalto per 6,9 milioni di euro a Leonardo, al solo scopo di noleggiare un drone per la sorveglianza del Mediterraneo Centrale. Almeno servisse a salvare le vite dei migranti in pericolo, ma sinora non c’è notizia di un suo impiego per finalità umanitarie.

Altre spese di rilievo riguardano l’esternalizzazione delle frontiere, con il coinvolgimento dei Paesi di transito lungo le rotte africane. Qui a fare la parte del leone è la Libia, con circa 200 milioni di euro. La legge di bilancio del 2021 prevede un esborso di altri 66 milioni per la realizzazione di “infrastrutture” su suolo libico. Segue a distanza il caso meno noto del Niger: attorno ai 100 milioni di fondi stanziati. Storico punto di snodo delle rotte che dal Golfo di Guinea conducono verso il Mediterraneo, il Paese saheliano ha subìto lo smantellamento dell’infrastruttura diffusa che forniva servizi ai viaggiatori in transito: acqua, cibo, ospitalità, trasporti. Un danno severo non solo per i trafficanti, capaci comunque di riconvertire le attività in altre direzioni, ma per molti pacifici operatori locali dell’economia formale e informale.

La Ue, dal canto suo, ha impresso un’accelerazione al suo impegno, come si usa dire, “securitario”. Nel budget settennale approvato a dicembre 2020, in coerenza con gli aspetti più discutibili del Patto su immigrazione e asilo presentato in settembre, ha destinato ai rimpatri (il termine più ricorrente del Patto) gran parte del Fondo per Immigrazione e Asilo (8,7 miliardi), oltre a sussidiare con 12 miliardi di euro il controllo dei confini.

Almeno tre aspetti inquietanti risaltano con evidenza da questi numeri e dalle politiche che li giustificano. Il primo riguarda la deviazione verso il contrasto dei transiti di spese per l’assistenza e lo sviluppo. Ossia si parla di aiuti umanitari, ma si finanziano Forze armate, centri di detenzione, acquisto di tecnologie. Il secondo aspetto chiama in causa il rafforzamento, grazie agli aiuti, di regimi autoritari e apparati militari dei Paesi africani arruolati nella sorveglianza della mobilità indesiderata. La quasi inesistenza di controlli sull’impiego dei fondi inoltre non può che alimentare il malaffare. Il terzo punto riguarda il risultato finale: mentre le spese per l’accoglienza salvano vite e operano per l’inclusione sociale, le spese per bloccare i migranti seminano morte e sofferenza. E questo è moralmente pesantissimo.

Contano le cifre, e i respingimenti non avvengono gratis, ma dovrebbe anche contare, come oggi si usa dire, la qualità della spesa e il suo impatto sociale.

 

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