Nella foresta pluviale sta facendo buio quando i camerunesi e i pachistani arrivano al campo. Hanno tutti tra i 20 e i 40 anni e sono carichi di zaini, tende e borse. Hanno le calosce sporche di fango e sembrano storditi. Stanno cercando di capire chi occupa la piccola radura che gli è appena apparsa davanti. È una spianata di terra punteggiata di tronchi e brandelli di tende. Alcuni uomini riposano su amache appese agli alberi. L’unico lusso è una cucina coperta da un telo: ci sono un tavolo di legno grezzo, un paio di fuochi da campo e alcune pentole annerite appoggiate sui sassi. I quattro pachistani, i primi ad arrivare, respirano affannosamente. La maggior parte dei camerunesi – in totale sono 18 – prosegue verso il fiume vicino, lasciando penzolare in acqua le custodie plastificate dei passaporti mentre si bagnano il viso. Una donna di nome Sandra se ne sta immobile, dolorante. Ha 23 anni ed è una delle più giovani del gruppo. Si toglie lo zaino e si siede su un tronco, stringendo le ginocchia. È preoccupata per la sua amica Benita, che ieri si è presa una distorsione al ginocchio. Quando la vede arrivare zoppicando, appoggiata a un bastone, Sandra alza lo sguardo. “Quanti giorni mancano?”, chiede, a nessuno in particolare. Sandra e il suo gruppo sono partiti due giorni fa dalla Colombia nordoccidentale e hanno camminato per più di venti chilometri lungo i sentieri ripidi e impietosi di questa lingua di terra chiamata Tapón del Darién (il tappo del Darién). Al confine tra Panamá e la Colombia, il Darién è una distesa di circa 25mila chilometri quadrati di foreste pluviali, montagne e paludi. Non ci sono strade. L’unico modo per aggirarlo è via mare. È considerato una delle regioni più pericolose del mondo, un corridoio per il traffico di droga infestato di giaguari e serpenti velenosi. Ma questo non impedisce a migliaia di migranti provenienti da Africa, Asia meridionale, Medio Oriente e Caraibi di attraversarlo nella speranza di raggiungere gli Stati Uniti.

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