Il Corno d’Africa figura tra le regioni più tormentate al mondo. A questa penisola orientale dell’Africa appartengono Gibuti, Somalia, Etiopia ed Eritrea. Ad eccezione del piccolo Gibuti – indipendente dal 1977 e con alle spalle una guerra civile chiusasi ormai da trent’anni -,  gli altri Paesi non sfuggono al morso continuo della violenza. Ciò vale innanzitutto per la Somalia, flagellata da più conflitti, avviati all’inizio degli anni’90 per abbattere la dittatura, alimentati dallo scontro tra signori della guerra e da ultimo infine segnati dai movimenti terroristi. Fonti delle Nazioni unite indicano almeno 500.000 persone vi periscono. Quanto all’Etiopia, è addirittura superiore il numero delle vittime  del conflitto che nel 2020-2022 oppone il governo centrale a quello del Tigray. Senonché, come documentato dal recente rapporto ad hoc di  esperti dell’Onu, la tregua non mette termine alle atrocità commesse su grande scala. E vi è infine l’Eritrea – le cui truppe hanno sostenuto l’Etiopia nella sua recente guerra interna-,  che si distingue  quale dittatura che con mano ferrea  non cessa di reprimere ogni libertà  civile, politica e religiosa. 

Quasi per contagio, la guerra si propaga negli Stati contigui. E’ il caso del Sudan che dall’indipendenza del 1956 conosce  ben quindici colpi di Stato e  due guerre civili (1955-1972 e 1983-2005). Nell’aprile di quest’anno si accende di nuovo lo scontro, questa volta tra le formazioni dell’Esercito regolare e i miliziani delle Forze di Supporto Rapido. Dopo sei mesi di distruzioni, le vittime calcolate superano le 9.000,  gli sfollati ammontano ad oltre cinque milioni e mezzo –  di cui oltre uno rifugiatosi nei vicini Egitto e Ciad- e venticinque milioni – quasi la metà della popolazione nel Paese –sono necessitano di aiuti.

Si deve anche al Festival dell’Accoglienza di Torino l’aver richiamato l’attenzione su questa  guerra di oggi  che – anche in ragione dei tragici eventi che stanno squassando Ucraina, Israele e Palestina – rischia , insieme a tante altre, di entrare nel cono d’ombra della cronaca e della storia. “Il corno d’Africa non trova pace: il Sudan” è l’inquietante e veritiero  titolo dell’incontro tenuto il 23 ottobre scorso. Moderata da Fabio Carminati (capo redattore esteri di Avvenire), la fitta sequela degli interventi si snoda lungo il filo dell’analisi, della testimonianza e dell’impegno offrendo molteplici elementi di conoscenza e spunti di riflessione. Così spetta alla ricercatrice universitaria Sara de Simone (della la Scuola di Studi Internazionali  di Trento) tratteggiare le  peculiarità della guerra. Si tratta innanzitutto di un conflitto locale interno al gruppo militare al potere, già responsabile del colpo di Stato del 2021. Duplice è l’obbiettivo. Da un lato, controllare in via esclusiva gli apparati dello Stato, e quindi le più importanti risorse del Paese. Dall’altro, bloccare ogni ripresa di quella transizione al governo civile avviatasi con grandi aspettative nel 2019 dopo il rovesciamento di dittatura trentennale. Il teatro degli scontri rimane soprattutto urbano – con l’epicentro a Karthoum, la capitale con sei milioni di abitanti- e perciò con conseguenze assai devastanti. Senonché la guerra tende ad espandersi – ad est raggiunge Port Sudan sul Mar Rosso -, intrecciandosi così con le mai risolte conflittualità locali.

Tocca poi a Eleonora Selmi (di MSF) narrare l’intensa esperienza di ostetrica in un ospedale da campo del Sud Sudan nel 2017,quando cioè il Paese, indipendente dal 2011, versa nel pieno della guerra civile scoppiata nel 2013 e prolungatasi per quasi sette anni. Esperienza di lavoro svolto in condizioni difficili perché oppresse sia dal rischio delle irruzioni armate che dalla cronica mancanza delle risorse necessarie, tra cui incubatrici, sale operatorie, medici. Ma prima ancora esperienza di vita, da cui scaturisce l’ammirato ricordo del coraggio espresso dalle giovani madri assistite e della tenerezza – unita alla volontà di crescita professionale- dei  collaboratori locali.

Infine Mohamed Ahmed Abdullah,  Marwa, Ahmed Mussa e Abdalla Saleh, da tempo impegnati nell’associazionismo sudanese a Torino,  danno voce  alla fiera nostalgia per il loro bellissimo Paese – ricco di natura e vestigia storiche – , non  disgiunta dalla tristezza per la dura sorte cui coloro che vivono in Sudan sono – e saranno lungo- costretti. Ma non è tutto  perché dai loro interventi emerge concreto l’impegno per aiutare i concittadini costretti all’esodo e nel contempo contribuire a rendere vieppiù accogliente la città che li ospita e a cui sono grati. Esercizio di responsabilità e solidarietà da incoraggiare e condividere.

(Alberto Perduca su La Voce e il Tempo 5/11/2023)

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