Avete mai accompagnato a scuola una figlia o un nipotino?

Se sì, vi sarete trovati negli ultimi cento metri a piedi in quel flusso di genitori e nonni e bambini che è diventato con il tempo sempre più multirazziale ma non multilinguistico, se non per noi adulti: i figli di nigeriani, polacchi, siriani, pachistani …. parlano in italiano mentre vanno a scuola e probabilmente anche a casa. Perché la scuola, a cominciare da quella dell’obbligo, ha superato le differenze e sta costruendo una nuova Italia. Multietnica. Com’è giusto che sia in un paese che invecchia e non riesce a mantenere lo stato sociale. Che significa servizi, pensioni, sanità pubblica. Sono i nuovi italiani a pagarli sempre di più.


Ma un milione di bambini, ragazzi e giovani, nati in Italia, istruitosi in Italia, che va ancora a scuola o all’università o ha cominciato a lavorare, quindi con tutti i diritti di partecipare alle scelte del Paese, non ha ancora la cittadinanza italiana. Sovente gliela negano leggi e burocrazia, piazzata nelle pieghe delle domande da presentare e che trasformano un diritto naturale in una faticosa corsa ad ostacoli.
Se entrate in una classe elementare e provate a chiedere agli alunni quanti sono nati in Italia non vi sorprenderà vedere alzarsi una mano di quasi tutti i presenti, ma se, subito dopo, chiedete loro quanti hanno la cittadinanza italiana, vi saranno mani che si abbasseranno: quel milione di senza cittadinanza si distribuisce in tutte le scuole d’Italia. Non è giusto per loro, non è giusto per noi avvertire un privilegio rispetto all’essere tutti italiani.


Happy è una giovane donna dalla pelle scura e dai capelli crespi – i suoi genitori sono di origine nigeriana – che è nata a Torino, parla un italiano perfetto e a 18 anni e 7 mesi è diventata cittadina italiana. “Sono stata fortunata perché, compiuti i 18 anni, come prescrive la legge, avevo tutti i documenti pronti e ho presentato la mia richiesta senza perdere tempo: ero informata su ogni dettaglio della pratica che dovevo affrontare nella finestra di un anno, come prescrive la legge, per diventare italiana e dopo sette mesi ce l’ho fatta.
I genitori di Happy, invece, per quanto avessero maturato molti più anni dei 10 stabiliti, sempre per legge, di residenza continuativa in Italia, non sono riusciti a diventare italiani: gli ostacoli burocratici che hanno bloccato loro sono stati d’insegnamento per la figlia.

Ma quanti non sanno, per esempio, che vuol dire residenza continuativa? Una amica e coetanea di Happy non è diventata italiana a 18 anni per il più banale e ingiusto degli intralci: appena nata, per 6 mesi, era tornata in Nigeria con la mamma: per lei la finestra del tempo previsto dalla legge per “inoltrare la sua domanda” si è chiusa. Dovrà riprovare ricominciando un iter, si dice così nel brutto linguaggio dei permessi per gli stranieri di origine, che è di tutta evidenza un crudele gioco dell’oca dei documenti. E’ sufficiente per perdere i requisiti aver perso casa e quindi la residenza continuativa per alcuni mesi. La causa: i soldi non bastavano per l’affitto e ed essere finiti al dormitorio non “certifica” di per sé la maturazione di un diritto. Pensate un po’. In corso Regina, dove c’è un dormitorio pubblico, si incontrano tante famiglie, magari composte da donne sole con figli.


L’8 e il 9 giugno si voterà per un referendum per cui il sì si limiterà a ridurre da 10 a 5 gli anni previsti per la cittadinanza degli stranieri emigrati in Italia e che qui hanno messo radici lavorando, affittando casa, condividendo le leggi italiane e pagando le tasse, per cominciare. In Europa la regola dei 5 anni di permanenza nello stesso paese è il tempo previsto per chiedere la cittadinanza. In Italia invece si raddoppia, e dal 1992.

Ma c’è di più, come sa bene Mohamed: “Vivo in Italia da 11 anni, ci sono venuto dal Senegal per raggiungere mio padre che viveva e lavorava qui da oltre 20 anni ed era diventato cittadino italiano. Sono stato il primo dei miei fratelli: papà non aveva abbastanza soldi per prenderci con sé tutti insieme. L’ho aiutato lavorando in nero mentre studiavo la lingua italiana per poi iscrivermi ad una scuola vera e prendere prima la licenza media e poi un diploma. Naturalmente lavoravo in nero perché non avevo trovato di meglio e così ora non posso ancora presentare la mia domanda di cittadinanza italiana: lavoro in un Caf da soltanto un anno e me ne mancano due per ottenere il secondo requisito necessario: i tre anni di contributi previdenziali che dimostrano, secondo la legge, il mio perfetto inserimento nella comunità italiana.
Anche i fratelli di Mohamed, da anni ormai in Italia, seguono lo stesso percorso. Ma che fatica: non si hanno diritti sulla strada dell’inclusione burocratica, ogni dettaglio può diventare una trappola. Il più crudele: si deve restare qui, tornare per tre mesi a casa dei nonni e delle proprie origini è un lusso che non si può concedere ai ricordi, spesso struggenti. Se vuoi diventare italiano/a, ti intima la legge, devi recidere ogni legame con il passato e ciò è quanto di più ingiusto si possa pretendere da una persona. Il disagio e la devianza di giovani di seconda generazione sconta spesso la conseguenza di questo percorso. Lo racconta chi si occupa di loro.


Anab è una donna di 37 anni di origine somala. E’ diventata cittadina italiana per la via più breve: ha sposato un italiano. Hanno due figli. Stanno bene insieme. Ogni tanto, sul tram, dal momento che ha un aspetto attraente, quasi fosse un handicap sociale, c’è chi le rivolge apprezzamenti pesanti in cui il razzismo si mescola con l’ignoranza di chi ha nostalgia per il colonialismo italiano che proprio in Somalia, la terra di origine di Anab, espresse il lato peggiore dell’Italia: ritenere i somali degli schiavi.
La società italiana deve ancora fare i conti, a quanto pare, anche con l’eredità del fascismo e il referendum, per quanto si chieda pochissimo al Parlamento italiano, è un’occasione per dimostrare che stiamo andando verso il futuro. Rimarrà l’attesa dei 18 anni per chi è nato qui, cioè quel milione di ragazzi che va a scuola o che, come l’amica di Happy, che sta ancora scontando i primi sei mesi di vita di ritorno al paese di origine della madre, sta faticosamente rimettendo insieme le carte del proprio diritto di essere a tutti gli effetti cittadino italiano. Intanto vi sono altri 2 milioni e mezzo di Mohamed, solo perché non sono nati qui, che attendono un sì convinto al referendum da chi ha il privilegio di poter votare.

Non sprechiamolo l’8 e il 9 giugno ricordandoci di andare a votare. Sarà un voto anche contro il razzismo.

[Alberto Gaino, Pastorale Migranti Torino]

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