Martedì 2 febbraio 2021, Vie di Fuga, articolo della Redazione

Nell’ultimo anno la strategia istituzionale di contrasto al soccorso in mare si è spostata dal piano penale a quello amministrativo. Lo scopo è sempre quello di bloccare le navi della società civile attraverso cavilli burocratici.

Interessante a tal proposito leggere le motivazioni riportate nei comunicati stampa diffusi dai Comandi generali delle Capitanerie di porto coinvolte: sono sempre le stesse. Intoppi burocratici, mancanza di sicurezza, problemi tecnici, violazioni anche delle normative a tutela dell’ambiente marino (sic).

Il cambiamento principale che riportano i portavoce delle ONG è che adesso si cerca di non far neppure partire le navi. I fermi amministrativi funzionano da misura di controllo e limitazione della loro azione nel Mediterraneo centrale. E a sostegno di questa azione i paesi dell’UE utilizzano la strategia della criminalizzazione: i dati raccolti dall’Agenzia Europea dei Diritti Fondamentali parlano di ben diciassette navi impegnate in operazioni di salvataggio in mare coinvolte in procedimenti legali tra il 2017 e giugno 2020, per un totale di oltre quaranta indagini avviate dagli stati europei (ma nessun procedimento ha raccolto prove sufficienti a far cominciare un processo).

 

Cronache di una criminalizzazione del salvataggio in mare:

5 maggio 2020 la prima nave fermata è stata la Alan Kurdi, battente bandiera tedesca;
6 maggio 2020 solo un giorno dopo, il 6, è stata fermata anche la spagnola Aita Mari (dell’Ong Salvamento Marítimo Humanitario);
8 luglio 2020 è stato invece il turno della Sea Watch 3 nel porto di Porto Empedocle;
22 luglio 2020 la Ocean Viking di Sos Mediterranée è stata bloccata a Porto Empedocle in seguito a una lunga ispezione. Solo quest’ultima è stata finalmente liberata il 21 dicembre scorso: dopo cinque mesi esatti;
25 settembre 2020 è il turno della nave Mare Ionio dell’organizzazione non governativa (Ong) Mediterranea, bloccata nel porto di Pozzallo.

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