Sabato 6 febbraio 2021, Melting Pot, articolo di Liliya Chorna, Redazione community
“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. È questa riflessione che ha portato Melting Pot a dare vita a una rubrica tutta dedicata alle parole. Parole che creano significati, li riproducono e, allo stesso tempo, sono il punto di partenza per comprendere il nostro mondo e decostruirne la naturalezza, l’oggettività data.
Il migrare è un atto naturale appartenente alla specie umana. Sin dalle sue origini l’essere umano ha iniziato a muoversi, tant’è che si può senza dubbio affermare che la storia dell’umanità è una storia di migrazioni. Anche se queste ultime rappresentano un tratto caratteristico della natura umana è innegabile che alla base delle migrazioni vi siano dei fattori scatenanti, così come è innegabile che la causa principale delle migrazioni contemporanee sia da ricercarsi nell’espansione coloniale.
È per questo motivo che un discorso sulle migrazioni contemporanee non può scindere da un’attenta analisi del termine “colonialismo” e, soprattutto, dalla rievocazione di quel passato coloniale ancora così vivo nel nostro presente. Il riconoscimento di questo passato costituisce la base fondamentale per una nuova narrazione della storia e della modernità, in grado di accogliere tutte le voci della terra. Senza tale riconoscimento e senza l’accettazione del proprio passato, non solo non è possibile comprendere le migrazioni, ma è altrettanto impossibile costruire una giustizia sociale, economica e politica [1].
Un’analisi del temine colonialismo rappresenta un’impresa ardua, considerato il terreno fertile e sconfinato della materia e le molteplici interconnessioni che esso implica. Riflettere sul colonialismo significa riflettere sui legami complessi tra razza, etnicità, subalternità e sistema economico e politico. La storia del colonialismo, il suo disseminarsi eterogeneo nello spazio e nel tempo, rende impossibile qualunque forma di schematizzazione. In questo articolo, dunque, più che fornire una definizione, mi limiterò a mettere in luce la complessità del colonialismo, in quanto sistema economico e ideologia politica, usando come strumento di analisi la prospettiva degli studi postcoloniali.
Il termine colonialismo deriva dalla parola latina colonus [2] , che a sua volta deriva dal verbo colo, colere. Nel suo significato originario il verbo si riferiva all’atto di coltivare e abitare simultaneamente. Nell’antichità, infatti, l’atto di coltivare la terra era legato a uno stile di vita sedentario, e dunque, strettamente associato all’atto di abitare, mentre la raccolta di vegetali e l’allevamento di bestiame erano forme di sussistenza legate al nomadismo. La radice del termine ci suggerisce dunque che la pratica del colonialismo comportava di solito il trasferimento della popolazione in un nuovo territorio, in cui i coloni vivevano in modo stabile e permanente. La remota origine del termine ci rammenta inoltre che, in quanto pratica di dominio politico ed economico, il colonialismo affonda le proprie radici nell’antichità. Tutti i più grandi Imperi della storia hanno esteso la propria egemonia annettendo territori adiacenti ed esercitando su di essi il proprio controllo.
A partire dall’età moderna, in seguito alla conquista dell’America, il termine viene utilizzato per indicare il processo di espansione, dominio e occupazione esercitato dalle potenze europee sul resto del mondo. Un processo, alla fine del quale, l’Occidente arrivò a esercitare il proprio controllo sulla superficie di quasi tutto il globo terrestre. L’Europa costruì la propria centralità nello spazio e nel tempo a colpi di dolore e di sangue. Nonostante la rimozione intenzionale di secoli di sofferenza, le ferite restano aperte e bruciano ancora.
Se a metà del Novecento la maggior parte dei Paesi conquistati è riuscita a ottenere l’indipendenza (politica e in alcuni casi anche economica), l’Europa, invece, non è mai riuscita a liberarsi dagli spettri del suo passato coloniale. Dopo secoli di dominio, sfruttamento e appropriazione di ricchezze, l’idea che la maggior parte della popolazione mondiale debba sacrificarsi per soddisfare i bisogni dei pochi continua a prosperare nel cuore del continente europeo.
Alla base del colonialismo c’era la logica spietata e ben precisa della bestialità dei colonizzati, uomini e donne incapaci di autogovernarsi e svilupparsi, bisognosi della “carità” degli Stati moderni per uscire dal baratro del proprio regresso. Tale logica non ha mai lasciato la narrazione eurocentrica dell’Altro: il colonialismo sopravvive oggi nell’imperialismo, che, per dirla con le parole di Edward Said [3], “resiste dove è sempre stato in una sorta di sfera culturale generale” (Said, 1998). Il passato, dunque, è presente. Non soltanto perché, come appena detto, persiste negli schemi della realtà presente, ma anche perché, in senso più ampio, il presente non è mai completamente presente, in quanto una costante ri-narrazione del passato.
Nei tremendi tempi moderni in cui viviamo è dunque di vitale importanza che l’Europa riconosca e accetti il suo passato, che recuperi le voci e le storie dimenticate. A tal proposito, le migrazioni contemporanee svolgono un ruolo fondamentale. I flussi migratori fratturano il senso della divisione dello spazio secondo la logica coloniale. Il Sud, collocato spazialmente e temporalmente altrove irrompe nei confini del Nord attraverso la presenza fisica delle persone migranti.
Tuttavia, in una società neoliberale, intrisa ancora delle logica coloniale (che però cerca costantemente di occultare), le persone migranti sono viste come un corpo estraneo da espellere, o al massimo, da integrare soltanto se sono funzionali alle esigenze del capitalismo. Il popolo migrante, dunque, non solo deve portare sul suo corpo la firma del passato coloniale, ma inciso sulla sua pelle è anche il potere delle leggi degli Stati che lo trasformano in un oggetto di illegalità.
Oggi il rapporto asimmetrico tra ricchi e poveri nel mondo è nutrito dal nuovo capitalismo globale. Se estendiamo la nostra prospettiva diventa evidente come il moderno processo di globalizzazione abbia sostituito il processo di colonizzazione. La globalizzazione presenta le stesse caratteristiche del sistema colonialista: iniquità, diseguaglianza, la stessa diffusione dal centro verso la periferia [4]. Le politiche dell’Unione europea, soprattutto in materia di migrazione, rappresentano l’esasperato tentativo di adeguarsi al nuovo sistema capitalistico di stampo globale e sono in tal senso da ricollegare all’eredità del suo passato coloniale.
Il potere della violenza coloniale è oggi difatti tangibile nella crudeltà delle politiche degli Stati, che, non in grado di contenere l’Altro all’esterno dei propri confini lo “colonizza” all’interno del proprio territorio oppure delega il suddetto potere ad altri Stati attraverso l’esternalizzazione dei propri confini, e dunque, la proliferazione di questi ultimi. Se ci soffermiamo ad analizzare le strutture e i meccanismi dei centri di detenzione delle persone migranti è impossibile non cogliere qui le matrici del dispositivo coloniale. L’occupazione coloniale aveva infatti intrisa in sé stessa la creazione di un nuovo ordine di relazioni sociali e spaziali, attraverso la produzione di frontiere, gerarchie e categorie [5]. All’interno di tale spazio il colonizzato era relegato in una condizione intermedia tra “soggetto” e “oggetto” [6]. Oggigiorno la stessa dimensione di isolamento e marginalità viene sperimentata dalle persone migranti nei centri di detenzione, in cui, spogliate del loro status di soggetti politici e private dei loro diritti, sono costrette a vivere in una condizione di deumanizzazione.
Restituire a queste persone la dignità del proprio esistere, accogliere le loro voci e riconoscerle in quanto soggetti attivi della storia: è questo il nostro compito. Il colonialismo e la sottomissione di una parte del pianeta sono alla base della nascita dell’Europa moderna [7]. Il progresso e il benessere europeo sono frutto di questa repressione storica e culturale [8]. Se non vuol rimanere che una triste colonia di sé stessa, è necessario dunque che l’Europa recuperi e accetti il proprio passato. In altre parole, è necessario che accetti l’Altro in quanto soggetto con cui condividere un progetto di futuro comune per una vita degna di essere vissuta per tutti e tutte.
Note
[1] Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca coloniale, MELTEMI, Roma, 2003, p. 138.
[2] Colonialism (Stanford Encyclopedia of Philosophy)
[3] Edward Said, Cultura e imperialismo, Gambetti editrice, Roma, 1998.
[4] Philippe Richard, Afrika, Globalisierung und Menschenrechte, in: Begründungen und Wirkungen von Menschenrechte im Kontext der Globalisierung: Dokumentation des VIII. Internationales Seminars des Dialogsprogramms Nord-Süd, Frankfurt am Main, 2001, p. 147.
[5] Achille Mbembe, Necropolitica, Ombre corte, Verona, 2016, p. 33.
[6] Ibidem.
[7] Iain Chambers, Postcolonial interrumptions, unauthorised modernities, Rowman & Littlefield, London, 2017, p. 22.
[8] Ivi., p. 21.