L’ipocrisia di tanti imprenditori è il miglior alleato del caporalato. Il maggiore è invece l’inerzia con la quale una parte delle Procure della Repubblica applica la norma del codice penale che, dal 2016, definisce il perimetro per perseguire gli sfruttatori di chi sia in stato di “necessità”. L’ipocrisia riguarda l’atteggiamento diffuso fra i datori di lavoro che si rivolgono ad imprese individuali e a finte coop – spesso costituite da ex lavoratori – per ottenere manodopera a bassissimo costo con la quale non abbiano rapporti formali. Il caso estivo delle Langhe è tuttora il più significativo: dimostra che la stessa norma introdotta otto anni fa è inefficace contro l’ipocrisia di certi imprenditori di Barolo e Barbaresco che vendono mediamente le loro bottiglie a 50 euro l’una, ma perseguibili con sanzioni pecuniarie molto inferiori a “margini di guadagno scandalosi – dichiara don Mario Melotta, direttore della Caritas di Alba – grazie a paghe in nero di soli 3 euro l’ora per 10/12 ore consecutive di lavoro.”

Anche i margini di guadagno dei caporali sono scandalosi, perché quegli uomini e donne (un’indagine astigiana ha portato ad una “caporala” che girava in Bmw per le colline del Moscato) speculano pure sui bisogni primari (sete, fame) di quanti sfruttano imponendo loro di pagare anche acqua e panini, oltre il trasporto nelle vigne. I 30/40 euro al giorno sulla carta “calano” a fine giornata. Dice don Melotta: “La vita dei migranti sotto questa gente è da sopravvivenza, dopo grandi fatiche quotidiane. Prova ne sono i piedi piagati al termine di giornate di lavoro trascorse con le infradito adattate a calzari da lavoro. Parliamo davvero di persone disperate. Se non chi si ridurrebbe ad accettare compensi così bassi?”

“In realtà abbiamo a che fare anche con cooperative a posto o sollecitate a mettersi a posto dall’attività giudiziaria – suggerisce da Canelli Claudio Riccabone, responsabile della Caritas locale – anche perché il lavoro stagionale dura mesi. Da noi vi sono due picchi: da metà aprile a giugno e da agosto a settembre inoltrato. In quegli archi temporali si firmano contratti di 45 giorni importanti per ottenere il permesso di soggiorno. Ma vi sono imprenditori che assumono con quei contratti ma poi fanno risultare solo 5 giorni di lavoro effettivi, il resto in nero. In quei casi i migranti non riescono più ad esercitare il diritto al permesso di soggiorno.”

Come riuscire ad applicare la legge 199/2016 per il contrasto al caporalato?

Controlli mirati sulle estensioni dei vigneti di ogni impresa, numero di dipendenti regolari, inclusi quelli a tempo determinato ( i filari vanno curati per gran parte dell’anno, specialmente se si offra poi vino biologico) e ore ufficialmente lavorate per la vendemmia. Incrociando i dati si chiarisce chi impiega manodopera irregolare.

“Togliere l’acqua ai caporali e a chi li sostiene”, dice Roger Davico, presidente Anolf, onlus che opera per l’integrazione sociale e lavorativa, “significa andare a fondo delle dinamiche di questo ormai vecchio fenomeno, che una volta coinvolgeva lavoratori dell’Est Europa, in particolare macedoni, e da qualche anno africani e pakistani, ancora pià vulnerabili e sfruttabili. Vulnerabili perché non hanno documenti e sono alla completa mercè di certe cooperative. La loro differenza di trattamento economico è di 7/8 euro l’ora in meno.”

Il fronte variegato della magistratura nella lotta al caporalato è un secondo fattore di peso. Lo sottolinea Claudio Riccabone: “Le indagini della Procura di Asti hanno portato a numerosi arresti e spinto parte delle coop sospette a trasferire la propria attività, a cominciare dalla sede legale, nel Saluzzese e nell’Albese.” Chi si mette a posto e chi si sposta dove spera di rischiare meno.

Non c’è solo la vendemmia in ballo. Il caporalato si è diffuso prima ancora che sulle colline in pianura dove si coltivano ortaggi e si curano le piante da frutta per buona parte dell’anno. Quest’anno, semmai, l’attenzione dell’opinione pubblica su questo fenomeno criminale si è accesa, prima, sul caso di Latina del migrante mandato a casa dal datore di lavoro con il braccio staccato e riposto in una cassetta, e poi sulla scoperta mediatica delle Langhe, simbolo dell’uva più pregiata in Italia, anche come terra in cui sguazza il caporalato grazie all’interesse di tanti imprenditori di ricavare ad ogni costo dal proprio vino margini di profitto altissimi.

Alcuni hanno avuto il coraggio di giustificarsi così: “La cosa non mi riguarda perché io pago un certo signore che porta nelle mie vigne i suoi lavoratori.”

Davico: “Si deve insistere sul danno di immagine che nasce da tutta questa illegalità e sulle possibili conseguenze per l’intera filiera del vino che vale, solo per le Langhe, 60 milioni di bottiglie l’anno. Allora sì che vi saranno reazioni positive, a cominciare dalle aziende più importanti e dallo stesso consorzio di tutela.”

Un dato importante è che alla chiesa albese tutta questa ipocrisia spesa per giustificare la compromissione con il caporalato è andata di traverso.

Lo documenta un recente coraggioso servizio di Famiglia Cristiana in cui compaiono le interviste al vescovo della diocesi albese, monsignor Marco Brunetti, e all’ex presidente del Consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, Matteo Ascheri.

Il vescovo ha pure indirizzato una lettera alle comunità parrocchiali: “Chi sfrutta i lavoratori più fragili come i migranti incorre in un gravissimo peccato che lo esclude dalla comunione eucaristica.”

Semmai c’è da chiedersi se vi sia stato qualche don Abbondio.

Anche Ascheri si è speso per la sua parte: da presidente del consorzio di tutela, nel marzo scorso, aveva firmato con istituzioni e parti sociali il protocollo di contrasto al caporalato con il quale ci si doveva aspettare che le 550 aziende socie del consorzio avrebbero rinunciato a lavorare con certi soggetti che, a dirla tutta, sono ben conosciuti da gran parte degli imprenditori.

Ascheri è un produttore vinicolo stimato: dirige l’azienda di famiglia, 12 dipendenti fissi, 20 ettari di vigneto, 240 mila bottiglie l’anno (“metà di Barolo e l’altra metà di Barbera e Nebbiolo”). Per questo era stato scelto come presidente del Consorzio. Firmando quel protocollo si era esposto: “Dal 2020 – ha raccontato a Famiglia Cristiana – mi sono pronunciato apertamente contro il caporalato. Ma sono stato lasciato solo”. E ad inizio estate non si è ricandidato. “Mi sono vergognato di rappresentare alcune aziende e con la mia ho deciso di uscire dal Consorzio.”

Scelta clamorosa e preveggente: in occasione di quest’ ultima vendemmia il protocollo è stato largamente inapplicato. Ascheri ne aveva fatto e continua a farne una questione di etica del lavoro, ma anche di immagine per lo stesso consorzio che presiedeva: le Langhe sono diventate un simbolo della terra che dà ricchezza, tanto da attirare investitori da tutto il mondo e turisti stranieri interessati all’enogastronomia. Diventare anche la terra di un vergognoso sfruttamento di lavoratori fra i più vulnerabili rischia di trasformarne l’immagine.

Forse agisce paradossalmente su imprenditori – che non hanno alcun motivo di sottopagare i propri lavoratori e di lasciarli vivere in casolari diroccati lungo il Tanaro – il Dna di immigrati ereditato dalle famiglie: le Langhe sono state in passato terre molto povere da cui partivano i bambini per andare a lavorare in Francia, i maschi nelle industrie del vetro, le femmine a raccogliere lavanda e altri fiori in Provenza o per essere impiegate come servette nelle famiglie. Succedeva nell’Ottocento, e questa particolare migrazione ha continuato a verificarsi sino agli anni 50 del Novecento. Quelle radici, anziché agire da anticorpo contro lo sfruttamento dei migranti (dai 4 ai 5 mila solo per la vendemmia), potrebbero aver incoraggiato qualcuno a pensare storto: Tocca a tutti, quindi ci sta che ce ne laviamo le mani. Per il resto, certi imprenditori albesi non vedono e non sentono quanto avviene nei loro vigneti. Non è affar loro.

Un sistema apparentemente perfetto, avvolto nella carta argentata dell’ipocrita Grande Convenienza.

Chi vada ad Alba in questi giorni post-vendemmia può respirare un’atmosfera da liberi tutti: la vendemmia è finita, tanti migranti si sono spostati a lavorare altrove, ne restano, ma ancora più invisibili. E la “questione caporalato” pare assopirsi. Ma è veramente come sembra a chi arrivi da fuori?

Monsignor Pierpaolo Felicolo, direttore della Fondazione Migrantes, sostiene la pratica della legalità come ricetta per sconfiggere il caporalato e racconta come sia pure decisivo per cambiare le cose riuscire a rendere visibili i lavoratori stranieri vittime di un fenomeno che impedisce loro di progettare un futuro dignitoso: casa, famiglia, scuola per i figli, integrazione sociale. Dice: “La denuncia è fondamentale ed è una denuncia doverosa per noi cattolici. Ma è anche fondamentale la politica del fare. A titolo di esempio riferisco dell’iniziativa che, come Fondazione Migrantes, abbiamo preso in Campania insieme alla nostra presenza sul territorio: abbiamo acquistato due pulmini e li abbiamo messi a disposizione di un primo gruppo di lavoratori migranti. L’idea era semplice: cominciare a renderli autonomi nel trasporto verso i campi dove lavorano, che è una seconda modalità del caporalato strettamente connessa alla prima, quella del reclutamento. Con i pulmini a disposizione è stato assai meno complicato riuscire, da parte loro, ad organizzarsi in cooperativa. Il terzo passo, con più denaro in tasca, è diventato cercare casa nei paesi, e noi li abbiamo aiutati a superare i pregiudizi.”

“Cominciare a vivere nei paesi li ha resi improvvisamente visibili e ciò ha messo in moto un meccanismo di relazioni: ci si incontra per strada, nei negozi, nei bar. Le prime volte si sconta una certa diffidenza, poi si passa ad un cenno di saluto e si finisce per prendere un caffè insieme, a volte. E’ una politica di relazione di piccoli passi, ma decisivi, uno dopo l’altro, per creare una rete di integrazione nelle comunità.”

In Campania tanti paesi sono vivi, nelle Langhe molto meno, secondo il pensiero di Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, che racconta dell’avvicendarsi di ristoranti stellati alle vecchie osterie, della scomparsa dei negozietti e pure dei preti, delle abitazioni private trasformate in B&B, dell’esaurirsi del tessuto sociale che rendeva solide le antiche comunità. Ci può stare che in quel vuoto trovi spazio, convenienza e persino vitalità un fenomeno orrendo come la tratta delle persone nei campi più ricchi di futuro per chi li sfrutta. Non certo per i migranti, il cui ultimo luogo di reclutamento quotidiano, ad Alba, per la stagione della vendemmia, era non a caso il cimitero locale.

A.G.

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